Il contratto di appalto rappresenta un fenomeno negoziale che esige particolare attenzione da parte degli organismi ispettivi in materia di lavoro e legislazione sociale. Possono, infatti, verificarsi casi di interposizione illecita di manodopera, quando lo pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti, che finiscono per essere alle dipendenze effettive di quest’ultimo, che detta loro le direttive sul lavoro, esercitando su di essi i tipici poteri datoriali. É, quindi, necessario individuare alcuni indici rivelatori della “genuinità” o meno di un appalto, che consentano di applicare correttamente gli ambiti di tutela normativamente previsti nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore.
Un genuino contratto di appalto (di opere o di servizi) si caratterizza per essere attuato dall’appaltatore, sia nel momento genetico (stipula del contratto), sia nel momento funzionale (esecuzione del contratto), quale impegno concreto, in cambio di un corrispettivo predeterminato, a realizzare, nell’interesse esclusivo o comunque del tutto prevalente di un altro soggetto (il committente o altrimenti detto appaltante), a proprio rischio, un determinato risultato (l’opera o il servizio appunto), avvalendosi, in assoluta e piena autonomia, di una propria organizzazione imprenditoriale e di proprio personale dipendente (ma anche autonomo).
Nel contratto regolare di appalto, quindi, ai sensi dell’art. 1655 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003, l’appaltatore s’impegna a realizzare con rischio a proprio carico un risultato predefinito a favore del committente, contro un corrispettivo pattuito, facendo affidamento e utilizzando la propria organizzazione imprenditoriale e, nell’ambito di questa, i propri dipendenti in piena e totale autonomia.
Al contrario si ha un fittizio contratto di appalto (“appalto di manodopera” o “pseudo-appalto”), che maschera una interposizione illecita di manodopera, quando lo pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti, che finiscono per essere alle dipendenze effettive di quest’ultimo, il quale detta loro le direttive sul lavoro, esercitando su di essi i tipici poteri datoriali. Ne consegue che una mera fornitura di personale, da parte di soggetto non autorizzato, fittiziamente mascherata da un contratto di appalto verrebbe a qualificarsi come interposizione illecita o somministrazione fraudolenta (art. 38 bis, D.Lgs. n. 81/2015), se non anche come intermediazione illecita di manodopera con sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.), con le rilevanti conseguenze sanzionatorie volte a ripristinare la legalità e le tutele verso i lavoratori, disperse nella filiera illegittimamente formatasi.
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